Benedetto Calati
![]() |
Monastero di Fonte Avellana (scriptorium) |
Anche
se è ormai datato, credo opportuno riportarlo su questo Blog, sia per la
statura del monaco che per la "penna" dell'articolista, immaginandolo
spunto di riflessione quanto mai attuale,
utile anche per sfatare luoghi comuni e pregiudizi che spesso rendono la
vita appiattita sul tran tran quotidiano delle nostre certezze.
Buona lettura.
BENEDETTO CALATI, UN MONACO SENZA INDULGENZE
di ROSSANA ROSSANDA
Si è spento a Camaldoli Benedetto
Calati, monaco raro che amavamo e che ci amava e per noi, che non speriamo
nell'eternità, per sempre perduto. Era
avvertito della fine, aveva salutato i fratelli saliti fra vento e pioggia a
dirgli addio, ma si era schermito dal benedirli,
come per restare il più spoglio fra di loro. E poi
s'era fatto riportare in cella, lontano dall'agitazione che circonda anche la
morte, trattenendo con un gesto soltanto Emanuele Bargellini, che porta su di sé la responsabilità del convento, la mano nelle
mani di lui, finché l'ansia del respiro si è andata acquietando nel sonno della fine.

Ma poi la chiesa se l'era non innocentemente scordato, e
quella che Benedetto aveva conosciuto da giovane era chiusa ed occhiuta, fino
ai rimbrotti del Sant'Uffizio, pronto a ritirare l'insegnamento se non a scomunicare
anche i più grandi. Così per prima cosa, pur tacendo, aveva riaperto Camaldoli al
suo ruolo storico di passo, luogo di sosta, accoglienza e ascolto dei
viaggiatori che attraversavano l'Italia. A Camaldoli nei secoli passati erano
affluiti da Firenze anche i Medici e qui adesso affluivano gli amici inquieti e
anche qualche nuovo potente, che Benedetto scrutava riconoscendo, con un
sorriso, "un poveretto allevato nelle sacrestie".
E a capo di Camaldoli era rimasto fino al 1984, quando
qualche commesso di Roma lo aveva indotto a lasciare. Ma ormai il monastero era
cambiato, c'erano i suoi allievi ed amici, ed egli ne rimaneva il riferimento -
non l'autorità, termine che non amava. Un
centro di preghiera e opere, ricerca teologica e musica, spalancato sul mondo -
non arrivava a dire che forse ogni monaco avrebbe dovuto lavorare fuori, e poi
rientrarvi, per non cedere all'appartarsi dalla vita reale degli uomini? Da
parte sua, egli scendeva a Roma, insegnava a Sant'Anselmo, visitava le altre
case e i gruppi che lo chiamavano.
![]() |
Monastero di Montegiove |
E l'estate veniva a Montegiove, la bella casa benedettina
un poco cadente sopra Fano, dove si riunivano credenti e non credenti,
definizione di cui a lui non poteva importare di meno, giacché dio, era scritto, aveva amato il mondo, non solo i fedeli.
A Montegiove si discuteva dei temi e dei dilemmi sapienziali, quelli che in
ultima istanza non sono così distinguibili fra religione e
religione, religione e laicità - il cristiano ha in più la fede, che è un dono e una virtù, ma un po' meno essenziale dell'amore. Leggeva per noi i
testi che più amava - ma perché torna su Gregorio?, si chiedevano talvolta i fratelli più giovani. Penso che fosse perché era il pontefice che aveva detto: siate soli davanti al
testo. E nelle sue parole, nelle ricerche dei biblisti, nelle nostre domande o
obiezioni o risposte, Benedetto ascoltava se stesso, vedeva la profezia come un
anagramma della storia, e fra esse e il tempo vedeva inscriversi il cammino
degli uomini. Del resto, un solo errore gli appariva una colpa ed era il
potere, il potere sulle menti, il potere del comando e della ricchezza. Era
stato l'editto costantiniano, il patto fra la chiesa e il potere terreno, la
vera grande colpa. Per chi non aveva potere e con lui cercava, egli nutriva
un'insaziata curiosità e tenerezza. Erano gli amici
e le amiche, cui scriveva come Gregorio: "Perché non vieni? Tutta Roma ti aspetta". Ma non era vero
niente, aggiungeva ridendo, non era Roma era Gregorio che aspettava.
A Montegiove lo sentii per la prima volta, me l'aveva
indicato Adriana Zarri, parlava sulla legge, la coscienza, la libertà e metteva la libertà per prima. Non succede spesso
che un sacerdote parli così, ma dio ci ha fatto liberi,
ricordava. Liberi di pensare e liberi di ascoltare. Anche qualche anno dopo,
quando parlammo dell'esilio, rivendicò al monachesimo non la fuga
dal mondo - respingeva il contemptus mundi, il disprezzo del mondo predicato
dalla chiesa devozionale - ma il ritiro dell'io con la parola, senza
l'intermediario della legge. Il monachesimo è
stato la libertà della chiesa nascente. Al
convento bisognava tornare per continuarne a uscire fra la gente.
Lui continua a muoversi dalla cella al mondo. E poiché i monaci sono pazzi, ne uscì
anche in un impietoso luglio, quando il solleone del meriggio lo colse in
viaggio, e un ictus lo colpì, crudelmente bloccandogli la
mano e la parola, lo scrivere e il parlare, il tramite fra lui e gli altri.
Nessuno di noi dimenticherà il fuoco delle sue parole
brevi e appassionate, che nessuna pagina restituirà mai.
![]() |
Camaldoli |
Dal limite e l'umiliazione del non riuscire a districare i
suoni e reggere la penna, era uscito da solo, sfuggendo per riserbo alle
affettuose violenze dei medici - non poteva sentirsi addosso le mani su quel
corpo che, ci spiegò una volta sorprendendoci un
benedettino diverso, Teodoro Salmann, imparava dal monachesimo una compiuta
compostezza; che, secondo Paolo, ci spiegava il biblista Barbaglio, è cosa di dio. Non so che cosa ne pensasse Benedetto. Non
gli piaceva né soffrire né indebolirsi, ed era riuscito a venirne fuori da solo,
caparbio, la parola appena un poco intralciata e la mano appena meno ferma.
Aveva dovuto rinunciare alle lezioni a Sant'Anselmo, diminuire i viaggi,
evitava i passeggi, come le lunghe scalinate del Celio, dove doveva essere
aiutato. Non amava l'idea della morte, ne aveva paura, mi disse un giorno che
parlavamo sotto il diluvio, lui inquieto nella zampata che si era sentito
addosso e io appesantita dalle insufficienze nelle quali sta finendo la mia
strada. Mi dicono che ultimamente le si era riconciliato, riconciliato con la
fine della meravigliosa vita, questa vita, traversata dal tempo che la divora,
ansia e dubbi e felicità delle creature: amava San
Francesco più per il Cantico delle creature
che per la povertà, lui che non aveva nulla e
non vidi mai nel bellissimo abito bianco del suo ordine, lui che girava in
pantaloni e maglione, una sciarpa al collo.
Ma doveva essere ormai pieno di collera, se questa parola
gli si può attribuire, o forse un
eccesso di amore frustrato per la chiesa che era stata la sua passione. Come ha
detto questa estate a un amico (Raffaele Luise, La visione di una monaco,
Cittadella Editrice, pagg. 95, Assisi 2000), aveva veduto nel Concilio Vaticano
II la realizzazione della speranza che la chiesa ritrovasse lo spirito del
Nuovo testamento e la sapienza del Vecchio. Speranza nutrita in un lungo
silenzio, perché gli ultimi papi "avevano
paura della laicità, paura del mondo
sconsacrato", ignoravano che "dio non dice di amare i fedeli ma di amare
il mondo". Ma poi era venuto il miracolo di Giovanni XXIII, "figlio
di contadini che arrivò a essere papa - contro ogni
diplomazia e regola - perché era tanto vecchio...
sussultammo anche noi per quel papa vecchio prima di scoprire che era
giovane". E ricorda il riso liberatorio con cui lo videro arrivare in
Vaticano "sulla sedia gestatoria con la tiara in testa e la fettuccia
delle mutande che era stata legata male. Finalmente ridemmo". Erano stati
liberati dal papa "che ci ha dato il Concilio, cioè il primato della parola di dio oltre ogni gerarchia umana,
cristiana, cattolica".
Ma poi sono venuti i colpi di arresto, le prudenze (è severo Benedetto con Paolo VI) e infine la concessione
alle pompe e agli ori e alla mediaticità del sontuoso giubileo, e quel
piovere di vergognose indulgenze e beatificazioni, perfino Pio IX. Già l'anno scorso ne aveva fatto un cenno severo a Montegiove.
Adesso nell'intervista a Luise la requisitoria è
spietata. Sì, aveva sperato che il
Concilio facesse uscire la chiesa da quello stato in cui "non c'era più ombra di vita, i fedeli dovevano essere più che fedeli, obbedienti", come i sudditi di una
repubblica pagana, tutti sotto controllo. Il dialogo ecumenico si apriva fra
religioni e fra gli uomini e le donne, "uomini e donne alla pari, che sono
essi la chiesa, il popolo di dio", non più
soltanto cardinali, papi, curia e vescovi. Popolo dove ognuno "conserva la
rivelazione nel suo cuore come Maria", la sorella di Marta, "perché la chiesa non inventa la verità, la custodisce". Ma allora, gli è stato chiesto, il Sant'Uffizio? "Deve andare a farsi
friggere". E la Congregazione della dottrina della fede?
"Un'espressione senza senso". Già circolano le voci sussiegose,
quando mai un monaco parla così? Benedetto non salva uno
degli apparati ideologici della chiesa, tantomeno la curia: non hanno
rampognato anche le miti parole del padre Dupuis, mentre elogiano l'Opus Dei e
Comunione e Liberazione? Le istituzioni del Vaticano sono residui, temporali,
storici. Ma allora l'infallibilità del papa? Storica anch'essa,
recente. E il papato? La chiesa dovrebbe essere di tutti, delle
"aggregazioni locali con il loro presidente e, mi auguro, la loro
presidente". Dunque l'esclusione della donna dall'amministrazione dei
sacramenti? Non comprensibile esclusione storica, ma errore, colpa. Non sono le
donne che erano rimaste con Cristo sotto la croce mentre tutti gli altri,
perfino Giovanni, fuggivano? Non è a Maria che Cristo risorto si
rivolge per primo: Maria non mi riconosci? Non erano certo mancate all'ultima
cena e se una donna ha evangelizzato la Germania vuol dire che amministrava i
sacramenti (Luise annota: non è storicamente provato). E
l'amore? L'amore è quel che più conta. E' il paradigma della cristianità, il senso della chiesa. Ma l'amore carnale? Sì, anche quello, quello del Cantico dei cantici, di San
Giovanni della Croce, di Abelardo ed Eloisa, capiti da Pietro il Venerabile,
l'unione dei corpi. Ma l'obbligo del celibato? Una prevaricazione di una
piramide maschile come è la chiesa romana. Il celibato
non può essere che una libera scelta
del monaco.
(Da "Il Manifesto" di domenica 26 novembre 2000 )
Molto bello l'articolo di Rossana Rossanda che ormai , data la venerabile età di 88 anni, non penso si rechi ancora a Montegiove.
RispondiElimina