lunedì 23 aprile 2012


UN’ORDINANZA … SBAGLIATA

Ecco il testo dell’Ordinanza postata su Facebook. Qualcuno la boccia perché Piazza Grande si può raggiungere tranquillamente a piedi, altri sostengono un errore materiale ipotizzando che in realtà si tratta di Piazza 40 Martiri, altri ancora con genuina passione ceraiola ironizzano che se a Piazza Grande si può posteggiare, questo lo possono fare soltanto i Ceri ed altro ancora.

ORDINANZA SINDACALE
 N. 101 del 16-04-2012
 REGISTRO GENERALE numero 107
 Oggetto: AUTORIZZAZIONE ALLA SOSTA IN PIAZZA GRANDE PER I VEICOLI CON PERMESSO U.C.
 IL SINDACO

 - PRESO atto della necessità di autorizzare la sosta in Piazza Grande, dei veicoli aventi il permesso U.C. (Uffici Comunali);

 - VISTO il D. L.vo 30.04.1992, n° 285 “Nuovo Codice della Strada”;

 - VISTO il D.P.R. 16.12.1992, n° 495 “Regolamento di esecuzione di attuazione del Nuovo Codice della Strada;

 - VISTO il D. L.vo 18.08.2000 “Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”.
ORDINA

 1. A partire dalle ore 8.00 del giorno 18.04.2012, i veicoli esponenti il permesso U.C. (Uffici Comunali) per la ZTL, sono autorizzati a sostare in Piazza Grande;
 2. A norma dell’art. 3 comma 4 della Legge 241/90 si avverte che avverso la presente ordinanza in applicazione delle Legge 06/12/1971 n. 1034 chiunque vi abbia interesse potrà ricorrere per incompetenza, per eccesso di potere o per violazione di legge entro 60 giorni dalla pubblicazione e notificazione del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Umbria; è altresì ammesso in alternativa ricorso straordinario entro 120 giorni dalla pubblicazione e notificazione al Presidente della Repubblica;
3. Per le trasgressioni trovano applicazione le sanzioni previste dal D.L.vo 285/92;
 4. Gli organi di cui all’art. 12 del D.L.vo 285/92, sono incaricati della vigilanza per l’esatta osservanza della presente ordinanza.

 Gubbio, lì 16.04.2012
 IL SINDACO
 Dott. Diego Guerrini

Breve considerazione
Non ritengo di dovermi  soffermare (lo hanno già fatto altri) sul “privilegio” sotteso all’ordinanza, né ribadire tutte le critiche apparse su Facebook e che in sostanza derivano dalla preoccupazione di non “avvelenare” anche una delle più belle e singolari piazze d’Italia. Mi preme invece prendere lo spunto da questa ordinanza, ma lo potrei fare per numerosi atti amministrativi  di altri enti pubblici, per fare una considerazione del tutto personale.
Si tratta della motivazione o meglio della sua mancanza nelle decisioni adottate con atti amministrativi che devono essere sempre, anche quando riguardano parte dei cittadini o addirittura singoli, orientati sempre alla tutela del pubblico interesse.

Del resto la carenza di motivazione (motivazione prevista da precise norme di legge) integra l’illegittimità dell’atto, così come la mancanza o incompletezza dei presupposti di fatto e di diritto che hanno determinato la decisione.

Nella fattispecie  

E' molto interessante ed articolata la motivazione dell'ordinanza :"PRESO atto della necessità di autorizzare la sosta in Piazza Grande, dei veicoli aventi il permesso U.C. (Uffici Comunali);"
E' come dire "Ritenuto di autorizzare tutti quelli con i capelli biondi...."

 L’ordinanza quindi sembrerebbe illegittima per carenza di motivazione... ma oggi gli atti amministrativi, un po' dappertutto, non vengono più motivati, si scambia il mandato elettorale ricevuto con l'interesse pubblico, dimenticando che ogni atto amministrativo della pubblica amministrazione deve essere adeguatamente motivato in maniera da ricavarne l'interesse pubblico sottostante, altrimenti... Una volta l'atto era illegittimo per abuso di ufficio, oggi con l'entrata in vigore della legge 241/90 per violazione di legge. Tale legge prevede tra l'altro che la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell'amministrazione, in relazione alle risultanze dell'istruttoria.
La potestà amministrativa di disporre non è in discussione, ma  è in discussione il perché si dispone in un modo piuttosto che in un altro. Insomma per dirla tutta è inutile ricordare al punto 2) dell'ordinanza la possibilità per i cittadini di ricorrere se agli stessi non è dato conoscere le motivazioni dell'ordinanza.
 Bah! Così pare che vada il mondo.

lunedì 16 aprile 2012


Giuseppe Verdi una via a spezzoni

Si accede a sinistra ,ma bisogna poi ritornare sui propri passi
Tralasciamo la bella invenzione, attivata  ormai qualche anno orsono, che rende a senso unico il primo tratto di Via Verdi, consentendo  comunque, con un tratto di 100 metri a senso alternato, di accedere al forno, agli ambulatori medici privati, ed alle abitazioni ubicate in  via Mascagni, Mozart e Largo Donizetti. Vie che, non avendo uscite, costringono l’automobilista che vi si è avventurato a ritornare sui propri passi, e a ripercorrere di nuovo lo stesso tratto di via Verdi.  

Ingresso da via Cristoforo Colombo è possibile immettersi soltanto a destra
Recentemente,  per la verità sono trascorsi ormai diversi mesi, l’automobilista che si immette su via Verdi,  provenendo da via Benedetto Croce e successivamente da via Cristoforo Colombo, lo può fare soltando svoltando a destra perché un altro spezzone della via (circa 150/200 metri ?) è stato reso a senso unico.  Allora chi si deve recare in quelle vie sopra citate o anche accompagnare i bambini alla scuola Aldo Moro, deve risalire via Verdi (direzione Cimitero per intenderci) immettersi sulla trafficatissima via di Porta Romana (già s.s.) con una svolta a sinistra veramente pericolosa, per poi svoltare centinaia di metri più avanti in via Alessandro Volta (i pompieri) e dopo poco riguadagnare finalmente di nuovo via Verdi  nel breve tratto intermedio percorribile nei due sensi.

Ingresso su via di Porta Romana con svolta a sinistra molto pericolosa
Ricapitolando via Verdi  è inizialmente a senso unico, poi per cento metri a senso alternato con “ritorno indietro obbligatorio”, si ritorna a senso alternato per una sessantina di metri , poi per i successivi 150/200 metri di nuovo a senso unico ed infine nella parte finale riappare il senso alternato.

Va precisato che: la larghezza della sede viaria è pressoché omogenea per l’intero tratto; non fa parte di alcun sistema viario a senso unico, per il semplice fatto che nella zona non ne esistono ed allora? Per consentire in alcuni tratti un parcheggio più “sicuro”? Rilevo che la vicina via della Vittorina molto più trafficata è a senso alternato e su un lato è consentito parcheggiare permanentemente. La larghezza della sede stradale è uguale.

Tratto intermedio incomprensibilmente a senso unico
Credo che qualcuno abbia il dovere di spiegare ai cittadini la ragione di queste ordinanze,  come già detto succedutesi nel tempo, che a prima vista e ad essere buoni appaiono quanto  meno cervellotiche.

giovedì 12 aprile 2012


Benedetto Calati

 Durante le riflessioni connesse alle frequentazioni del monastero di Fonte Avellana, eremo tenuto in maniera egregia dai monaci camaldolesi e che una volta era ricompreso nella Diocesi Eugubina e così caro al nostro S. Ubaldo, mi sono imbattuto in un articolo scritto da Rossana Rossanda (la giornalista comunista del Manifesto!) in occasione della morte di Benedetto Calati (21 novembre 2000), monaco camaldolese e già priore generale dell’ordine. L’articolo mi è  così piaciuto chel'ho voluto condividere con i miei amici del “Il Gibbo”, girandone loro una copia.
Monastero di Fonte Avellana (scriptorium)





Anche se è ormai datato, credo opportuno riportarlo su questo Blog, sia per la statura del monaco che per la "penna" dell'articolista, immaginandolo spunto di riflessione quanto mai attuale, utile anche per sfatare luoghi comuni e pregiudizi che spesso rendono la vita appiattita sul tran tran quotidiano delle nostre certezze.

Buona lettura.









BENEDETTO CALATI, UN MONACO SENZA INDULGENZE
di ROSSANA ROSSANDA
Si è spento a Camaldoli Benedetto Calati,  monaco raro che amavamo e che ci amava e per noi, che non speriamo nell'eternità, per sempre perduto. Era avvertito della fine, aveva salutato i fratelli saliti fra vento e pioggia a dirgli addio, ma si era schermito dal benedirli, come per restare il più spoglio fra di loro. E poi s'era fatto riportare in cella, lontano dall'agitazione che circonda anche la morte, trattenendo con un gesto soltanto Emanuele Bargellini, che porta su di sé la responsabilità del convento, la mano nelle mani di lui, finché l'ansia del respiro si è andata acquietando nel sonno della fine.
Aveva 86 anni, era smagrito come un ramo secco, i grandi occhi scuri rimasti divoranti sul volto smunto. "Benedetto ha ottant'anni" aveva telefonato ridendo un certo mese di marzo; nessuno ama la vita come chi vede in essa una meraviglia di dio. Era nato povero, Luigi Calati, che poi aveva scelto il nome del suo ordine, i benedettini, nella campagna del tarantino, e da ragazzo i suoi l'avevano messo nel convento dei carmelitani a Mesagne. Di quella campagna ossequiente aveva raccontato una volta a Montegiove, facendo sussultare un vescovo che s'era presentato inatteso, che la processione del Corpus domini si fermava sotto il balcone dei signori del paese, perché essi non vi partecipavano fra il volgo. Era nato ribelle, se a 16 anni era scappato una notte verso Camaldoli dove gli avevano detto che la parola era studiata "sine glossa", senza il filtro dell'interpretazione obbligata o consentita. E di Camaldoli era diventato la guida nel 1969, in ubbidienza ma con il cuore libero, che era la sola cosa libera che la chiesa lasciava allora e che gli aveva insegnato il suo testo prediletto, gli scritti di Gregorio Magno, il papa che era stato un prefetto di Roma e poi s'era raccolto al Celio, mentre l'unicità dell'impero era battuto dall'irruzione dei barbari/l'altro, abbattendone l'arroganza. Gregorio, il solo pontefice che aveva detto: "L'ultimo dei credenti può interpretare la parola come me".
Ma poi la chiesa se l'era non innocentemente scordato, e quella che Benedetto aveva conosciuto da giovane era chiusa ed occhiuta, fino ai rimbrotti del Sant'Uffizio, pronto a ritirare l'insegnamento se non a scomunicare anche i più grandi. Così per prima cosa, pur tacendo, aveva riaperto Camaldoli al suo ruolo storico di passo, luogo di sosta, accoglienza e ascolto dei viaggiatori che attraversavano l'Italia. A Camaldoli nei secoli passati erano affluiti da Firenze anche i Medici e qui adesso affluivano gli amici inquieti e anche qualche nuovo potente, che Benedetto scrutava riconoscendo, con un sorriso, "un poveretto allevato nelle sacrestie".
E a capo di Camaldoli era rimasto fino al 1984, quando qualche commesso di Roma lo aveva indotto a lasciare. Ma ormai il monastero era cambiato, c'erano i suoi allievi ed amici, ed egli ne rimaneva il riferimento - non l'autorità, termine che non amava. Un centro di preghiera e opere, ricerca teologica e musica, spalancato sul mondo - non arrivava a dire che forse ogni monaco avrebbe dovuto lavorare fuori, e poi rientrarvi, per non cedere all'appartarsi dalla vita reale degli uomini? Da parte sua, egli scendeva a Roma, insegnava a Sant'Anselmo, visitava le altre case e i gruppi che lo chiamavano.
Monastero di Montegiove
E l'estate veniva a Montegiove, la bella casa benedettina un poco cadente sopra Fano, dove si riunivano credenti e non credenti, definizione di cui a lui non poteva importare di meno, giacché dio, era scritto, aveva amato il mondo, non solo i fedeli. A Montegiove si discuteva dei temi e dei dilemmi sapienziali, quelli che in ultima istanza non sono così distinguibili fra religione e religione, religione e laicità - il cristiano ha in più la fede, che è un dono e una virtù, ma un po' meno essenziale dell'amore. Leggeva per noi i testi che più amava - ma perché torna su Gregorio?, si chiedevano talvolta i fratelli più giovani. Penso che fosse perché era il pontefice che aveva detto: siate soli davanti al testo. E nelle sue parole, nelle ricerche dei biblisti, nelle nostre domande o obiezioni o risposte, Benedetto ascoltava se stesso, vedeva la profezia come un anagramma della storia, e fra esse e il tempo vedeva inscriversi il cammino degli uomini. Del resto, un solo errore gli appariva una colpa ed era il potere, il potere sulle menti, il potere del comando e della ricchezza. Era stato l'editto costantiniano, il patto fra la chiesa e il potere terreno, la vera grande colpa. Per chi non aveva potere e con lui cercava, egli nutriva un'insaziata curiosità e tenerezza. Erano gli amici e le amiche, cui scriveva come Gregorio: "Perché non vieni? Tutta Roma ti aspetta". Ma non era vero niente, aggiungeva ridendo, non era Roma era Gregorio che aspettava.
A Montegiove lo sentii per la prima volta, me l'aveva indicato Adriana Zarri, parlava sulla legge, la coscienza, la libertà e metteva la libertà per prima. Non succede spesso che un sacerdote parli così, ma dio ci ha fatto liberi, ricordava. Liberi di pensare e liberi di ascoltare. Anche qualche anno dopo, quando parlammo dell'esilio, rivendicò al monachesimo non la fuga dal mondo - respingeva il contemptus mundi, il disprezzo del mondo predicato dalla chiesa devozionale - ma il ritiro dell'io con la parola, senza l'intermediario della legge. Il monachesimo è stato la libertà della chiesa nascente. Al convento bisognava tornare per continuarne a uscire fra la gente.
Lui continua a muoversi dalla cella al mondo. E poiché i monaci sono pazzi, ne uscì anche in un impietoso luglio, quando il solleone del meriggio lo colse in viaggio, e un ictus lo colpì, crudelmente bloccandogli la mano e la parola, lo scrivere e il parlare, il tramite fra lui e gli altri. Nessuno di noi dimenticherà il fuoco delle sue parole brevi e appassionate, che nessuna pagina restituirà mai.
Camaldoli
Dal limite e l'umiliazione del non riuscire a districare i suoni e reggere la penna, era uscito da solo, sfuggendo per riserbo alle affettuose violenze dei medici - non poteva sentirsi addosso le mani su quel corpo che, ci spiegò una volta sorprendendoci un benedettino diverso, Teodoro Salmann, imparava dal monachesimo una compiuta compostezza; che, secondo Paolo, ci spiegava il biblista Barbaglio, è cosa di dio. Non so che cosa ne pensasse Benedetto. Non gli piaceva né soffrire né indebolirsi, ed era riuscito a venirne fuori da solo, caparbio, la parola appena un poco intralciata e la mano appena meno ferma. Aveva dovuto rinunciare alle lezioni a Sant'Anselmo, diminuire i viaggi, evitava i passeggi, come le lunghe scalinate del Celio, dove doveva essere aiutato. Non amava l'idea della morte, ne aveva paura, mi disse un giorno che parlavamo sotto il diluvio, lui inquieto nella zampata che si era sentito addosso e io appesantita dalle insufficienze nelle quali sta finendo la mia strada. Mi dicono che ultimamente le si era riconciliato, riconciliato con la fine della meravigliosa vita, questa vita, traversata dal tempo che la divora, ansia e dubbi e felicità delle creature: amava San Francesco più per il Cantico delle creature che per la povertà, lui che non aveva nulla e non vidi mai nel bellissimo abito bianco del suo ordine, lui che girava in pantaloni e maglione, una sciarpa al collo.
Ma doveva essere ormai pieno di collera, se questa parola gli si può attribuire, o forse un eccesso di amore frustrato per la chiesa che era stata la sua passione. Come ha detto questa estate a un amico (Raffaele Luise, La visione di una monaco, Cittadella Editrice, pagg. 95, Assisi 2000), aveva veduto nel Concilio Vaticano II la realizzazione della speranza che la chiesa ritrovasse lo spirito del Nuovo testamento e la sapienza del Vecchio. Speranza nutrita in un lungo silenzio, perché gli ultimi papi "avevano paura della laicità, paura del mondo sconsacrato", ignoravano che "dio non dice di amare i fedeli ma di amare il mondo". Ma poi era venuto il miracolo di Giovanni XXIII, "figlio di contadini che arrivò a essere papa - contro ogni diplomazia e regola - perché era tanto vecchio... sussultammo anche noi per quel papa vecchio prima di scoprire che era giovane". E ricorda il riso liberatorio con cui lo videro arrivare in Vaticano "sulla sedia gestatoria con la tiara in testa e la fettuccia delle mutande che era stata legata male. Finalmente ridemmo". Erano stati liberati dal papa "che ci ha dato il Concilio, cioè il primato della parola di dio oltre ogni gerarchia umana, cristiana, cattolica".
Ma poi sono venuti i colpi di arresto, le prudenze (è severo Benedetto con Paolo VI) e infine la concessione alle pompe e agli ori e alla mediaticità del sontuoso giubileo, e quel piovere di vergognose indulgenze e beatificazioni, perfino Pio IX. Già l'anno scorso ne aveva fatto un cenno severo a Montegiove. Adesso nell'intervista a Luise la requisitoria è spietata. Sì, aveva sperato che il Concilio facesse uscire la chiesa da quello stato in cui "non c'era più ombra di vita, i fedeli dovevano essere più che fedeli, obbedienti", come i sudditi di una repubblica pagana, tutti sotto controllo. Il dialogo ecumenico si apriva fra religioni e fra gli uomini e le donne, "uomini e donne alla pari, che sono essi la chiesa, il popolo di dio", non più soltanto cardinali, papi, curia e vescovi. Popolo dove ognuno "conserva la rivelazione nel suo cuore come Maria", la sorella di Marta, "perché la chiesa non inventa la verità, la custodisce". Ma allora, gli è stato chiesto, il Sant'Uffizio? "Deve andare a farsi friggere". E la Congregazione della dottrina della fede? "Un'espressione senza senso". Già circolano le voci sussiegose, quando mai un monaco parla così? Benedetto non salva uno degli apparati ideologici della chiesa, tantomeno la curia: non hanno rampognato anche le miti parole del padre Dupuis, mentre elogiano l'Opus Dei e Comunione e Liberazione? Le istituzioni del Vaticano sono residui, temporali, storici. Ma allora l'infallibilità del papa? Storica anch'essa, recente. E il papato? La chiesa dovrebbe essere di tutti, delle "aggregazioni locali con il loro presidente e, mi auguro, la loro presidente". Dunque l'esclusione della donna dall'amministrazione dei sacramenti? Non comprensibile esclusione storica, ma errore, colpa. Non sono le donne che erano rimaste con Cristo sotto la croce mentre tutti gli altri, perfino Giovanni, fuggivano? Non è a Maria che Cristo risorto si rivolge per primo: Maria non mi riconosci? Non erano certo mancate all'ultima cena e se una donna ha evangelizzato la Germania vuol dire che amministrava i sacramenti (Luise annota: non è storicamente provato). E l'amore? L'amore è quel che più conta. E' il paradigma della cristianità, il senso della chiesa. Ma l'amore carnale? Sì, anche quello, quello del Cantico dei cantici, di San Giovanni della Croce, di Abelardo ed Eloisa, capiti da Pietro il Venerabile, l'unione dei corpi. Ma l'obbligo del celibato? Una prevaricazione di una piramide maschile come è la chiesa romana. Il celibato non può essere che una libera scelta del monaco.
(Da "Il Manifesto" di domenica 26 novembre 2000 )